Mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento ai figli: l’inadempimento non sempre integra il reato ex art. 570 c.p.

Il Tribunale di Marsala sposando l’orientamento della Corte di Cassazione Penale (sentenza N. 15898 del 09/04/2014) ha stabilito che il comportamento di chi, onerato in sede civile dell’obbligo di versare i mezzi di sussistenza ai propri familiari, non vi provvede, non sempre incorre in responsabilità penale.

Nella fattispecie in esame  il soggetto obbligato, dopo aver perso il lavoro, aveva saltuariamente corrisposto l’assegno di mantenimento per i figli, riducendone talvolta l’importo; ciò aveva scatenato la reazione dell’ex moglie che lo aveva querelato per violazione di cui l’art. 570 c.p.

La difesa dello Studio Legale Rallo tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dalla pubblica accusa, aveva prodotto nel corso del giudizio idonea documentazione comprovante lo stato di indigenza dell’imputato nonché certificazione attestante lo stato di disoccupazione dello stesso. Inoltre sempre nel corso dell’istruttoria dibattimentale è emerso altresì come effettivamente, durante il periodo in cui era venuto meno l’assegno di mantenimento in favore dei figli, di fatto gli stessi avevano beneficiato dell’aiuto economico dei nonni materni e del compagno della madre.

Pertanto facendo leva sugli insegnamenti dateci dalla Suprema Corte di Cassazione l’Avvocato Rallo ha fatto riflettere su come non può esserci equiparazione tra il concetto penalistico di “mezzi di sussistenza” con quello civilistico di “mantenimento”, con la conseguenza che ogniqualvolta il Giudice  si trovi innanzi alla presunta violazione prevista dall’articolo 570 c.p. deve preliminarmente stabilire se l’inadempimento dell’imputato ha privato o meno i soggetti beneficiari di tali mezzi, dal momento che l’ipotesi delittuosa de qua non può assumere carattere sanzionatorio del mero inadempimento del provvedimento reso dal Giudice Civile.

Compagnie aeree e dress code

compagnie aeree e dress code

Riportiamo oggi uno strano caso che vede coinvolta una compagnia aerea americana, la United Airlines alle prese con i codici di abbigliamento all’interno dei suoi aeromobili.

A due ragazze è stato vietato di salire a bordo di un aereo della United Airlines perchè vestite in modo “non consono”.

E’ accaduto negli Stati Uniti d’America, precisamente a Denver. A due ragazze lo staff della United Airlines ha impedito l’imbarco perchè il loro abbigliamento è stato reputato non consono al dress code dell’azienda.
L’accadimento non è certo un caso eccezionale, anche ad una bambina di dieci anni era stato chiesto di non imbarcarsi per via dell’abbigliamento. I genitori, però, erano prontamente intervenuti cambiandole vestiti.

Il caso delle due ragazze in leggings ha avuto, però, la fortuna di esser stato documentato in diretta da un’attivista, Shannon Watts. Dopo aver assistito alla scena, immediato è stato il lancio nell’etere di un tweet.

La United Airlines si è difesa sostenendo che le giovani avevano dei biglietti che impongono un “dress code” (regole d’abbigliamento). Si tratta dei cosiddetti “United pass travellers”, biglietti concessi a parenti stretti di dipendenti della compagnia. Il “dress code” United oltre ai leggings vieta a chi ottiene questi biglietti ciabatte da spiaggia, qualsiasi vestito troppo attillato tanto da rivelare la biancheria intima, pantalocini troppo corti, magliette con scritte o immagini offensive.

Come è stato spiegato poi i valori aziendali sono fondamentali e coloro i quali viaggiano in qualità di dipendenti, o con biglietti di tipo “Pass Riders”, sono considerati rappresentati d’azienda. C’è quindi obbligo di adottare un dress code tale da non cozzare con i valori proposti. I viaggiatori normali, infatti, non sono soggetti agli stessi vincoli.

Sui social si è subito scatenata l’ironia e l’hashtag #leggingsonplane è stato usato centinaia di volte in decine di lingue

La polemica ha portato la United Airlines a scrivere ancora sulla questione: “A tutte le nostre clienti, i vostri leggings sono i benvenuti!”.

 

Gli studi legali al tempo dei social network

Secondo alcuni risultati da un’indagine condotta da Ultralaw su circa 500 studi legali italiani, il social network che viene maggiormente utilizzato resta Facebook (circa il 55%).

Negli Studi legali italiani c’è ancora molta diffidenza nell’uso dei Social Network per scopi professionali, in particolare per la mancanza di una vera e propria cultura di “social media marketing applicata agli studi legali”

  1. il 75% degli Studi Legali non ha un Corporate Blog, che può essere considerato lo starting point per una corretta strategia di social media marketing
  2. per il 39% degli Studi Legali, il Social Media Marketing non è una funzione centralizzata (ovvero non è gestita!)

C’è tanta strada da percorrere per avvicinarsi ai dati USA e alle tendenze degli Studi Legali americani, per i quali l’utilizzo dei social network è fondamentale per sviluppare business. Tuttavia, ci sono dei chiari segnali di una tendenza a concedere sempre maggiore importanza ai canali social. Basti pensare che saper utilizzare i social network è ritenuto indispensabile o molto importante per il 56% degli avvocati.

Nonostante il social media ad uso professionale per eccellenza sia Linkedin, solamente una piccola parte (il 44%) degli studi legali italiani usano un profilo su Linkedin.

Solo pochi studi legali hanno un corporale blog (25%) integrato e aggiornato sul sito web e questo è un buon punto di partenza per una buona strategia social.

I social network sono sia uno strumento di informazione ma allo stesso tempo anche di relazione, nascono infatti per intrattenere relazioni fra utenti. Spesso però la maggior parte dei professionisti, come gli avvocati, usano questi strumenti di comunicazione come delle vere e proprie vetrine. Vengono raccolte sui social tutta una serie di notizie a scopo divulgativo e informativo, privi dunque di alcun contenuto che possa servire per instaurare una relazione con il lettore.

Bisogna ricordare che i social network sono delle “piazze virtuali” dove far crescere la brand reputation dello studio legale attraverso contenuti coinvolgenti e accattivanti. Un luogo dove condividere esperienze e raccontare una storia (uno storytelling) a “puntate” in modo da creare un’abitudine nel lettore e creare curiosità. Ultima considerazione è che  nei social a parlare sono le persone,  perciò i professionisti devono alternare toni formali a quelli informali e di colore (senza scadere di livello), questo rinforzerà la relazione con i vostri lettori .

Il nostro studio legale si avvale di un team di professionisti specializzati in comunicazione e marketing degli studi legali che ci svelano ogni giorno preziosi consigli e ci guidano nella gestione della nostra reputazione online.

Gli alimenti non sono dovuti se il coniuge non prova di avere fatto il possibile per trovare un lavoro. Cassazione, Sez. I Civ., 08 febbraio 2017, n. 3318

divorzio

La Corte di Cassazione ha ribadito che  <<il diritto agli alimenti previsto dall’art. 433 c.c. è legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità da parte dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di attività lavorativa: se questi è in grado di trovare un’occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali, nulla può pretendere dal coniuge>>.

NOVITA’ IN TEMA DI ALLEVAMENTO E DETENZIONE DI AVIFAUNA PROTETTA

 

 

 

Negli ultimi anni “allevare regolarmentefauna autoctona è diventata un’impresa assai ardua se non impossibile. La normativa nazionale e regionale vigente in tema di detenzione e di allevamento di fauna selvatica autoctona ha più volte suscitato perplessità e dubbi interpretativi.

Tali questioni emersero per la prima volta nel 1992, con l’introduzione nel nostro ordinamento della c.d. “legge sulla caccia” (L. 11febbraio,1992,n.157).

Il problema infatti che affligge gran parte di allevatori e amatori è quello di essere soggetti ad una disciplina che trova la sua fonte normativa e regolamentazione in una serie di leggi riguardanti proprio la caccia.

Come è possibile che il legislatore nazionale abbia assimilato il cacciatore all’allevatore?

Non vi sembra una forzatura quello di equiparare un soggetto che uccide ad uno che alleva. Lo stesso tenore dell’articolo 17 della legge nazionale recita “le regioni autorizzano…” . Invece molto spesso ritroviamo nei regolamenti regionali la dizione “…può autorizzare“, non vi sembra una discrezionalità abusiva quella delle regioni che possono o meno concedere l’autorizzazione ai fini dell’allevamento di fauna selvatica autoctona?

Se un amatore in una mostra ornitologica decidesse di acquistare una coppia di cardellini con relativa documentazione “certificazione di provenienza“, rischierebbe tuttavia, di trovarsi senza alcuna risposta da parte degli enti deputati al rilascio dell’autorizzazione all’allevamento, dal momento che ogni Regione adotta un proprio disciplinare.

A chi dovrei dunque rivolgermi per far rispettare il mio diritto di allevare?

La legge Nazionale infatti non prevede alcuna limitazione numerica di soggetti. Sarebbe un paradosso un controllo delle nascite rispetto alla libera uccisione di molti animali “cacciabili”.

Invece alcune Regioni pongono limiti assurdi; in Toscana, ad esempio, è possibile allevare una sola coppia di “fringillidi”; alcune Regioni prevedono un Registro di allevamento, alcune vidimato, altre non vidimato;  Comunicazioni a fine anno dei soggetti detenuti; rinnovo e autorizzazione ogni anno, ogni 5 anni, o ogni 6 anni, o addirittura non necessaria come la Lombardia.

Alcune regolamentano oltre alla detenzione e allevamento delle “specie cacciabili e fringillidi” (come previsto dalla Legge Nazionale) anche gli “esotici”, ignorando che esista anche la CITES (Cessione di Esemplari Vivi di Specie Iscritti all’allegato 7 di cui all’art. Reg. CE n.939/97 del 26 Maggio 1997 ed allegato B al Regolamento CE del 18 Novembre 1997). Quindi non di loro competenza.

Tuttavia un vero e proprio traguardo sembra essere stato raggiunto recentemente in Sicilia con l’emanazione del Decreto 1371 del 22 dicembre 2015 Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 2015.

La Regione Siciliana – Assessorato Regionale dell’Agricoltura – Dipartimento Regionale dello Sviluppo Rurale e Territoriale – ha emesso il nuovo disciplinare, tanto atteso, relativo all’ALLEVAMENTO DI FAUNA AMATORIALE ED ORNAMENTALE (Decreto Regione Siciliana n° 1371)

Tale disciplinare apporta alcune modifiche ed integrazioni a quello già in vigore (D.A. del 30 giugno 1998 pubblicato sulla G.U.R.S. del 26 settembre 1998, n° 48) per essere adeguato alla recente Giurisprudenza e soprattutto per ottenere uno snellimento delle procedure.

Le novità del nuovo decreto, pubblicato sulla G.U.R.S. del 22 gennaio 2016, attengono in buona sostanza  ad alcune modifiche ed integrazioni del precedente D.A. e riguardano nello specifico:

– Introduzione all’interno del disciplinare di una sezione dedicata all’ “allevamento e/o detenzione di fauna proveniente da soggetti nati in cattivita’” – Distinzione netta tra ALLEVAMENTI di soggetti nati in cattività e DETENZIONE autorizzata di pochi soggetti (fino a 5 esemplari) di soggetti nati in allevamento.

– Possibilità di impiantare un allevamento (o una detenzione) con una semplice COMUNICAZIONE di possesso di soggetti inanellati e provenienti da allevamenti già autorizzat (e non più a seguito di autorizzazione, con il lungo iter di cui sappiamo). NON E’ PIU’ PREVISTA ALCUNA AUTORIZZAZIONE BASTA UNA SEMPLICE COMUNICAZIONE realizzata nei modi e nei termini descritti nel disciplinare.

– Specifica indicazione delle dimensioni minime per le gabbie di allevamento e detenzione. Le condizioni richieste per il locale di allevamento/detenzione ricalcano per larghe linee quelle del precedente disciplinare e vanno solamente autocertificate (con conseguente assunzione di responsabilità) e comunicate da parte del proprietario detentore/allevatore. Basta quindi autocertificare di essere in regola con le prescrizioni di legge previste, e comunicarle alle autorità preposte.

Di seguito si riporta il link sul nuovo disciplinare pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana il 22 gennaio 2016.

 

Arrivano i “digital crimes”

Ed ecco che con la diffusione dei social network, ed in particolare con Facebook,stanno prendendo piede una tutta una serie di  reati commessi all’interno o per mezzo dei medesimi social network, i cosiddetti “Digital Crimes”.

Come ad esempio, è un reato, la creazione di un profilo Facebook con un nome di fantasia, ovvero la sostituzione di persona, reato punito dall’art. 494 c.p. ai sensi del quale: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.

Anche la giurisprudenza afferma positivamente che il delitto di sostituzione di persona integri una condotta criminosa, che consiste principalmente nella creazione, all’interno di un social network, di un profilo avente un nome di fantasia, che però riproduca, l’immagine di un’altra persona e nel conseguente utilizzo,con tale falsa identità, dei servizi del sito, consistenti essenzialmente nella possibilità di comunicazione in rete con gli altri iscritti, indotti in errore dalla identità dell’interlocutore, e di condivisione di contenuti.

La Suprema Corte ha ritenuto possibile integrare il dolo specifico richiesto dalla disposizione dell’art. 494 c.p. anche mediante la pubblicazione di un profilo su internet non del tutto riferibile alla persona offesa, ma comunque ad essa ricollegabile tramite una fotografia, qualora la condotta sia finalizzata a conseguire un vantaggio o a recare un danno.
E’ pertanto possibile integrare la fattispecie delittuosa di sostituzione di persona creando un profilo in un social network non del tutto riferibile alla persona offesa, utilizzando cioè una fotografia e non il nome reale della persona offesa.

Tale contegno è sufficiente per attribuirsi l’identità della persona offesa, inducendo altresì in errore coloro i quali comunichino con il “falso” profilo tramite chat, o mediante l’inserimento di commenti a “post” e immagini presenti su quella pagina Facebook.

Come promuovere le attività dello studio legale?

 

Spesso quando si parla di servizi legali, ciò che i clienti acquistano sono integrità, credibilità e attendibilità di un servizio, nel senso di “capacità di svolgere il proprio compito”. Sono caratteristiche difficili da vendere, specie se si fa ricorso a metodi solo tradizionali quali la pubblicità o il passaparola, strumenti molto validi ma lenti nel portare i risultati.

I diversi metodi che uno studio legale può utilizzare richiedono, un diverso livello di impegno. Ad esempio tra i vari strumenti che uno studio può utilizzare, troviamo la pubblicità su riviste specializzate, la newsletter, la pubblicazione di articoli per riviste settoriali, la partecipazione a convegni e seminari nella veste di relatori, libri. Per un avvocato sono più efficaci le pubbliche relazioni declinate secondo l’acronimo PENCILS con il quale Philiph Kotler, descrive le dimensioni delle PR.

P : pubblicazioni, ovvero qualsiasi forma cartacea di comunicazione

E : eventi, ovvero attività che aiutano a far circolare il nome dello studio legale

N : notizie, sono le informazioni da far arrivare ai potenziali clienti

C : community, sono le relazioni con la comunità d’appartenenza

I : identità visiva, che comprende i biglietti da visita, la carta intestata, l’eventuale marchio e relativo pay off

L : lobbing, sono le relazioni con le istituzioni

S : social, ovvero l’interessamento al sociale attraverso il proprio lavoro e impegno, dedicato a favore di organizzazioni dedite al volontariato

Prima di scegliere però tra i vari strumenti di marketing vanno individuati:

  1. i destinatari dei messaggi e delle campagne di PR
  2. i messaggi chiave che si desidera inviare

Tutti i messaggi e gli strumenti devono essere però coerenti con il posizionamento scelto dal singolo studio legale.

Le pubbliche relazioni danno un forte contributo nello stabilire la credibilità per un professionista o di uno studio legale e spesso si può ipotizzare che gli obiettivi della comunicazione delle pubbliche relazioni, possono essere raggiunti a costi più bassi rispetto ad altre iniziative promozionali.

Ad esempio si possono utilizzare per costruire notorietà e conoscenza attorno alla figura dell’avvocato e di conseguenza dello studio. Inoltre si possono fornire informazioni approfondite ai clienti sui servizi erogati dello studio e rafforzare il brand dello studio legale.

E’ importante dunque riflettere sulle PR che in Usa definite le Litigation Pr ovvero l’insieme di attività di relazioni pubbliche che supportano un procedimento giudiziario in tutte le sue fasi, dall’inizio del procedimento ai diversi gradi di giudizio, fino alla sentenza finale.

La pressione dei media sull’avvocato,  prima della sentenza finale nella routine dei processi in tribunale, la diffusione di un clima negativo che pregiudica sostanziamente la reputazione e enfatizza le debolezze, sono tutte situazioni in cui potrebbe trovarsi uno studio legale nel normale svolgimento delle proprie attività.

Questa realtà impone  allo studio professionale di saper gestire con effiacia non solo aspetti strettamente legati alla conoscenza del diritto ma, anche, delle relazioni con i media, dell’attenzione e tempestività delle risposte fornite. L’avvocato può affidarsi a dei professionisti delle relazioni pubbliche che lo sostengono in questa fase.

La differenza tra l’avvocato esperto “legale” e il relatore pubblico sta proprio nel fatto che i legali tendono ad essere dei “cacciatori” e pensano alla promozione in termini di singole azioni, mentre il relatore pubblico conosce bene il mondo dei media e sa offrire supporto in ogni fase del processo per far emergere il suo “punto di vista”.

 

 

Vendere online con app e social

Secondo le ultime ricerche NetComm, il canale di vendita più utilizzato dai consumatori oggi è quello online. Secondo la ricerca  svolta dall’Osservatorio E-commerce B2C del Politecnico di Milano, presentata nell’ottobre 2015 e aggiornata a maggio 2016, l’ecommerce è  (link: http://www.osservatori.net/it_it/osservatori/osservatori/ecommerce-b2c) in continua crescita. Gli acquisti online superano quelli offline, avvengono non solo tramite le pagine dei siti web corporate ma anche attraverso i social network e mediante le varie Apps sviluppate appositamente per essere sempre sotto gli occhi degli utenti.

Il mercato e-commerce, non avendo confini territoriali, diviene uno “spazio aperto” per il libero scambio attraverso qualsiasi piattaforma. Bisogna però  non sottovalutare il panorama legale vigente.

1) “Social shopping” quali sono le normative da rispettare:

L’apertura di un canale e-commerce online tiene conto di un complesso quadro normativo ma allo stesso tempo anche l’espletamento di alcune attività preliminari sia dal punto di vista tecnologico (scelta del provider, del servizio di hosting, ecc) che formale (come gli adempimenti burocratici, fatturazione e pagamenti, consegne e tutela dei dati personali).

Per soddisfare i clienti e per acquisire la loro fiducia bisognerà avere un sistema di pagamento sicuro, clausole contrattuali trasparenti e un sistema di consegna efficace e assistenza post vendita di assistenza veloce .

Tutte le regole che l’imprenditore dovrà seguire per aprire un e-commerce sui social invece non cambiano rispetto a quelle sul sito istituzionale (ossia le previsioni di cui al D.lgs. 70/2203 e al codice del consumo): devono essere chiare le condizioni di vendita, devono essere descritti tutti gli elementi del prodotto con informazioni complete e aggiornate sull’uso del prodotto.

Anche la tutela della privacy deve essere rispettata come ad esempio la modalità di raccolta dei dati personali e il loro uso per scopo di marketing.

2) I concorsi a premi sui Social Network

Spesso i concorsi a premi vengono utilizzati dalle aziende come strumenti di marketing digitale in modo integrato con la strategia di comunicazione.

I concorsi a premio vengono anche usati all’interno delle piattaforme dei social network, sempre nel rispetto però di normative legali vigenti.

I concorsi a premio  seguono una normativa  prevista dal D. lgs. 430/2001. La legge contiene tutti i principi di base applicabili al concorso o alla manifestazione, in qualunque contesto nel quale essi si svolgano, come ad esempio nei social network.

Il primo punto che emerge dal testo legislativo è il principio di territorialità: il concorso a premi deve essere svolto sul territorio dello Stato.

Del pari, per applicazione del medesimo principio, i destinatari del concorso devono essere cittadini residenti in Italia, la cui partecipazione e i cui dati siano raccolti su server italiani. 

In questo caso bisogna però ricordare che tutti i social network sono di origine straniera, quindi non si può realizzare il concorso. La soluzione resta quella di affiancare all’attività del concorso sui social un collegamento ad un sito web dedicato esterno dove oltre a portare a termine l’iscrizione vengono spiegati i termini della partecipazione al concorso.

Si parla in questo caso di “mirroring“, l’unica soluzione suggerita dal Ministero nel caso in cui ci sia un incrocio delle attività svolte si in Italia che all’estero. Consiste dunque nel reindirizzare tutte le attività dei social su un server in Italia, assicurando l’ubicazione delle attività su territorio nazionale. Anche lo svolgimento dell’assegnazione del premio deve risultare su territorio italiano.

Bisogna inoltre rispettare la “fede pubblica”, ovvero la garanzia che le procedure siano trasparenti e affidabili.  A questo scopo infatti il Ministero dello sviluppo economico entra nel merito degli accordi commerciali tra i promotori ed i gestori dei social al fine di evitare che la partecipazione alle manifestazioni pubblicizzate sulle piattaforme sia illusoria, verificandone tutta la procedura.

Per utilizzare i social network per il concorso bisognerà necessariamente pubblicare il Regolamento ovvero “le linee guida” sulle pagine web “gestite”

3) Acquisti con le app: il problema della tutela dei dati personali

Il social shopping è l’evoluzione dell’ecommerce tradizionale, adesso gli acquisti avverranno anche attraverso i social network o attraverso le APPs su smartphone (quasi il 5%). Le App sono semplici e rapidi da usare, ed il punto di forza è che sono sempre a portata di mano.

Anche per le App non può fare a meno di ricordare che vige una normativa in merito. Innanzitutto, il venditore deve chiarire quali sono le condizioni di vendita con le informazioni necessarie e obbligatorie come ci ricorda il Codice del Consumo (art. 48 e ss. D.lgs.206/2005).

Come tutte le altre attività bisognerà prevedere un’informativa per i dati personali altrui sintetica e completa e su questo Il c.d. “Gruppo Articolo 29” (detto anche WP art. 29), che riunisce i Garanti della protezione dei dati personali di ciascuno stato membro comunitario, ha infatti adottato un parere che esamina i rischi fondamentali per la protezione dei dati derivanti dalle applicazioni per terminali mobili.

Nel parere sono indicati, in particolare, gli obblighi specifici che, in base alla legislazione Ue sulla privacy, sviluppatori, ma anche distributori e produttori di sistemi operativi e apparecchi di telefonia mobile, sono tenuti a rispettare.

Questo viene preso in considerazione perché tutte le applicazioni sono in grado di raccogliere una grande quantità di dati personali.

Ecco perché il parere del WP art. 29 individua precise raccomandazioni e obblighi per ciascuno degli attori coinvolti, evidenziando che la protezione di dati personali degli utenti e la relativa sicurezza sono il risultato di azioni durature e coordinate di sviluppatori, produttori dei sistemi operativi e distributori (gli app-stores, appunto).

Il Garante Privacy italiano, su questo fronte, ha suggerito di seguire le “buone prassi” fin dalle fasi iniziali di sviluppo e creazione delle app e in aggiunta, l’Autorità specifica la necessità di definire e comunicare chiaramente i tempi di conservazione dei dati raccolti, anche mediante l’impiego di icone user friendly che segnalino in modo inequivoco gli specifici trattamenti di dati che sono “in corso” (ad esempio, l’attività di geolocalizzazione).

Ad avviso delle istituzioni, non devono inoltre mancare punti di contatto e assistenza che consentano sempre l’esercizio dei diritti connessi alla tutela della propria riservatezza, protetti e garantiti sia dal Codice della privacy italiano (art. 7 e ss.) sia dal nuovo Regolamento Europeo n. 679/2016.

Un’impresa che, prima di entrare nel settore del commercio elettronico, abbia curato con particolare attenzione tutti gli aspetti cruciali, legali e strategici della propria attività, ha senz’altro buone possibilità di creare una rete di vendita che funzioni e porti sviluppo e guadagno al propri

Individuare la mission e la vision dello studio legale

Quando uno studio legale vuole orientare le attività al marketing la prima cosa da fare è scrivere il proprio piano di marketing, l’avvocato a questo punto deve individuare la “vision” e la “mission” dello studio legale.

La vision spesso risponde alla domanda: “cosa sto costruendo?” e la risposta può essere semplicemente una frase che offre  la chiara meta del legale di riferimento “sono un avvocato che ottiene dei riconoscimenti per la sua capacità di …relazione” ad esempio.

La vision deve essere ragionevole e rappresentare una meta raggiungibile, ma allo stesso tempo può essere un sogno con un traguardo;

La mission invece risponde alla domanda: perché i clienti dovrebbero scegliermi? La mission dichiara esattamente lo scopo dello studio.

Tutta la pianificazione delle attività di marketing dello studio contribuisce a mantenere e sviluppare un efficace orientamento dello studio legale secondo un processo quasi manageriale che tenga conto di risorse umane e materiali presenti nella struttura dello studio.

Oltre all’individuazione della mission e della vision dello studio, bisogna tradurre la mission in obiettivi strategici e individuare il target dell’area di riferimento.